“Senza salvezza il tempo è senza tempo,
questa città una festa senza festa.
Eppure questa volta non c’è tempo
di fingere, non ce la faccio”. – “Resta”,
ti dissi. Ma volesti andare via.
“Amore, non startene così, moesta
et errabunda...” – ti dissi: “Vai via”.
Non era tua, la rabbia, era la mia.
Oh, Napoli: non parli che di questo.
Eppure tu non sai che cosa sia
Napoli, non lo immagini, è un pretesto
per sprofondarmi, aggrapparti alla mia
tristezza senza fine, essermi padre.
Teme i suoi figli, Napoli: nella pia
catarsi delle sei le bianche squadre
della morte: le hai viste, da mia madre...
...sfilare, sotto le sue balconate
di Toledo, dividerti da te stessa,
legarti ad un latrato di risate
e ricongiungerti anche tu alla ressa
di chi non fa che rivolerti uguale,
identica al tuo rito – a quella messa
canonica, cantata. Ma carnale,
non lo sei più: sei astratta, un animale.
L’attore che dimentica la parte
e sulle labbra del suggeritore
cerca di leggere il cammino: l’arte
di camminare ai bordi, di strisciare
agli orli stretti delle piazze, quando
precipita la festa, e poi aspettare
la debolezza altrui. Dicesti: “Mando
un sms. Lascio a te il comando”.
“Tutto giunge a una fine, anche la notte”:
è questa la speranza e la paura.
“Di quel che muore a me che me ne fotte:
io mi appassiono solo a quel che dura
più di me stessa, più di questo amore”.
“Eppure tu che temi la sciagura
temi di nominarlo: è questo amore
che ci precede che ti dà terrore”.
Di certi muri ometti l’indirizzo
perché ti sei stancato di procedere
di bellezza in bellezza: un pioppo vizzo,
un’altra aurora; a che serve. Se cedere
non ha più senso, non si sa a chi o a cosa.
E resistere, poi. Cambi le federe,
ti trastulli col sogno di una cosa
ma non ci credi, disegni una rosa.
Ed io che credevo fosse impossibile
amarsi senza amore, con un male
dentro, inoltrarsi in un corpo terribile
per quanto è estraneo; spargere del sale
nelle ferite altrui, tirarsi indietro,
spezzato nelle vertebre, animale,
rinculi nella cantina, nel retro,
ti dici che non puoi tornare indietro.
E non ci si allontana facilmente
da certe abitudini, certi riti
celebrati da chi più intensamente
di noi ha voluto dei giorni infiniti
e selvaggi come quelli animali.
Noi siamo diversi, dici, irretiti
da una luce più alta. I nostri mali
sono il prezzo dell’essere anormali.
Qualcosa sta aspettando di accadere
e noi siamo tutti in quest’imminenza
come se non ci fosse da vedere
nient’altro. Da Napoli a Piacenza
ci guardavamo intorno, diffidenti,
però lieti della nostra demenza
che ci faceva stringere nei denti
un grido, la preghiera dei violenti.
Si nasce con il marchio sulla fronte,
verrebbe da dire, e il fuoco nelle ossa:
l’abbiamo preso ognuno di sua sponte,
abbiamo fatto ognuno la sua mossa –
ed ora eccoci qui in combattimento,
liberi, come soldati sul fronte
della battaglia, presi da un mai spento
ardore, un rapido cominciamento...
Oh, non è vero che le cose mutano
senza che lo vogliamo, non è vero:
ciò che è, sta. I pensieri si commutano
in altri meno chiari, dentro un nero
limbo di un’ostinata permanenza.
Le cose c’erano: ero io che non c’ero,
che già morivo. No, non è presenza
il ricordo di me, la mia demenza.
Il graffio del tuo volto nella sabbia,
il sibilo delle foglie sui tetti
sospesi nella nebbia: era la rabbia
dell’acqua scura contro i parapetti
di Posillipo. E ci si spezza il cuore
a non saper trovare mai i corretti
segni dei tempi, come se l’amore
fosse solo una nostalgia, un dolore.
Le azzurre stalattiti che ricordano
di noi quando ce ne saremo andati,
chiacchierati da luoghi che si scordano
di noi, appesi alle finestre, bruciati
dal desiderio di sapere cosa
resta del fumo di schiuma, dei fiati
d’acqua delle testuggini. Tu, sposa
della vita, dimmi cosa sei, cosa?
Dimmi cosa bisogna attraversare
per esser santi, per essere veri:
essere trafelata come il mare –
questo io voglio. Ti guardavo dai neri
vetri d’inverno: Napoli, in un caffè
gelato, in un viavai di camerieri:
con questo, tu, c’entravi. Amavo te;
non la tua immagine riflessa: te.